Quasi un'epigrafe

Seduto nel soggiorno di casa e distolto lo sguardo dallo schermo della televisione, ho sempre davanti lo scaffale dove sono riposte le fotografie della mia famiglia, ognuna nella propria varietà di cornice, quasi a narrare tempi diversi di collocazione. Moltitudini di volti e occhi che guardano me mentre io guardo loro in una reciprocità muta e serena. Lo scaffale è l’edicola dove sono collocati i viventi, e anch’io sono presente, mentre un’altra postazione della stanza accoglie le fotografie dei genitori defunti, degli altri parenti e di qualche amico di famiglia che è accolto nel vestibulum di casa come un ospite a pranzo o in visita di cortesia.

I vivi stanno alla luce che proviene da un ampio balcone che dà sul giardino di casa e godono del chiarore del giorno sui visi ritratti dalla fotografia del colore, a differenza dei defunti, che sono più da parte, in una nicchia del mobile che funge da sacello privato delle perdite. La distanza tra le due postazioni è breve, ma il tempo che li separa è misurabile in anni-luce, in ricordi di pianeti lontanissimi in galassie disperse nell’universo. Esse sono come le mutazioni del colore infrarosso che legge la distanza delle stelle e riferisce di tempi avvenuti e trascorsi, eppure ancora visibili se la loro luce ci sorprende ancora dopo il viaggio ipergalattico.

Così penso che ambedue i loci sono vicini e quasi sovrapposti nella distorsione del tempo se la nostra memoria li riconosce come un unicum temporale, la sola capace di vivere tempi e luoghi lontani con la contemporaneità del riconoscimento, dello svelamento che tra un attimo ci trasferiamo, o ci trasferiranno, da un luogo all’altro solamente in funzione del tempo. Altri occhi ci guarderanno così, in futuro.